(Avv. Emanuela Fumagalli, avvocata del foro di Milano – avvocato@emanuelafumagalli.it).
1. Premessa
La pronuncia della Corte di Cassazione numero 46784 del 7 ottobre 2021, in materia di
riconoscimento dell’attenuante della provocazione ad una donna che aveva reagito ai
pregressi atti violenti posti in essere dal compagno, risulta di particolare interesse in quanto,
per la prima volta, la Corte si occupa, sia pur indirettamente e senza prendere una esplicita
posizione, della tematica della “Sindrome da donna percossa” e della incidenza di tale disturbo
sulla reazione di una donna ad una condotta sistematicamente aggressiva e denigratoria da
parte del partner, aprendo di fatto la strada, sulla scorta di quanto avviene in altri paesi, a
possibili future interpretazioni in merito alla valenza di tale condizione clinica.
Negli ordinamenti anglofoni la “Sindrome della donna percossa” è denominata “Battered Woman
Sydrome -BWS”, definizione coniata dalla psicoterapeuta Lenore Walker alla fine degli anni
70, per descrivere il modello di comportamento ed emozioni che possono svilupparsi quando
una persona subisce un abuso e mentre cerca di trovare il modo di sopravvivere a tale
situazione.
In tali ordinamenti, la “Sindrome della donna percossa” è stata ritenuta una condizione clinica
atta in alcune situazioni ad attenuare l’ipotesi di reato contestata, in altre idonea ai fini del
riconoscimento dell’esimente della legittima difesa, in altre ancora è stata fatta rientrare nel
novero di “insanity defense” o di “diminished responsability” (corrispondenti nella sostanza al
nostro vizio totale o parziale di mente).
In Italia, fino ad oggi, la Corte di Cassazione non aveva mai avuto modo di occuparsi di
tale questione; lo fa per la prima volta in occasione della pronuncia in oggetto che, a parere
di chi scrive sembrerebbe porre le basi per un possibile riconoscimento futuro dell’incidenza
di tale disturbo sulla reazione di una donna alle ripetute violenze subite dal partner.
La sentenza, infatti, nell’accogliere il motivo di ricorso presentato dalla difesa sul mancato
riconoscimento dell’attenuante della provocazione, costituisce un “timido” avvicinamento
all’impostazione giuridica adottata da altri ordinamenti particolarmente sensibili al problema
della violenza domestica ove, come innanzi specificato, tale condizione incide non solo ai
fini del riconoscimento di un’attenuante, ma anche come causa di giustificazione ovvero sulla
capacità di intendere e volere.
2. I fatti
Per meglio comprendere la portata della decisione, è necessario ripercorrere la vicenda
evidenziandone i tratti salienti, così come ricostruiti nella sentenza di primo grado.
A seguito del ferimento del proprio compagno, successivamente deceduto, la Signora
M.L.F. veniva rinviata a giudizio per il reato di omicidio volontario, poi derubricato dal
Giudice di primo grado in omicidio preterintenzionale.
Si legge in Sentenza che l’imputata, in occasione dell’arresto, aveva raccontato di avere
ferito involontariamente il compagno e di avere chiesto, subito, alla figlia (che studiava in
camera) di prendere del ghiaccio per tamponare la ferita e di chiamare un’ambulanza, cosa
che la figlia faceva prontamente.
Nell’interrogatorio avanti al Giudice, la Signora raccontava delle proprie vicissitudini
familiari quando viveva nel proprio paese di origine, dove aveva subito una violenza sessuale
ed era stata vittima di condotte violente da parte del marito e del suo arrivo in Italia per
lavoro, nonché dell’incontro con l’attuale vittima, con la quale instaurava una relazione
inizialmente felice, da cui nasceva anche una figlia, relazione che però presto si guastava
perché il compagno, spesso ubriaco, iniziava a maltrattarla.
I testimoni sentiti nel corso delle indagini, avevano confermato quanto raccontato dalla
Signora, ossia che spesso la vittima beveva e, in particolare, la figlia riportava un clima
famigliare caratterizzato da continue liti e discussioni, dove il padre era solito assumere
atteggiamenti piuttosto “irritanti” e fare di tutto “per far perdere la pazienza” sia a lei che alla
madre: tale clima conflittuale veniva confermato dalla figlia maggiore dell’imputata.
Nella sentenza di primo grado il Giudice dava atto del clima di continue vessazioni in cui
l’imputata era costretta a vivere e come tale clima l’avesse esasperata a tal punto dal portarla,
la sera dei fatti, a reagire al comportamento del compagno allorché quest’ultimo aveva
iniziato a “… provocarla ed irriderla “rinfacciandole di essere una “mantenuta…”.
Il Giudice, nel descrivere l’accaduto, precisa che al momento dei fatti la Signora “perdeva
la pazienza afferrando le fatture delle spese di casa che la vittima le mostrava, le strappava davanti a lui e
con una penna che teneva in mano lo colpiva sul dorso della mano; l’uomo a quel punto soddisfatto di essere
riuscito a provocare la lite, la colpiva con uno schiaffo e le faceva cadere gli occhiali, quindi, la apostrofava con
le parole “cosa vuoi che sia per te, sei abituata a cose peggiori!”; lei allora esasperata impugnava il coltello che
si trovava in tavola per la cena, intimava all’uomo di smetterla con i suoi atteggiamenti arroganti e, di fronte
alle risate di scherno del marito, senza rendersi conto del gesto che stava compiendo, lo colpiva con il coltello
al torace”.
Il Giudice di primo grado accoglieva, dunque, le conclusioni difensive in punto di
derubricazione della condotta da omicidio volontario ad omicidio preterintenzionale, dando
conto, nella parte motiva della sentenza, che “… non fosse ravvisabile il dolo di omicidio, ma solo
la volontà di lesione e questo in ragione della singola lesione toracica inferta d’impeto alla persona offesa e dal
comportamento tenuto successivamente dall’imputata che si era immediatamente adoperata per soccorrere la
vittima e che si era interessata delle condizioni del marito nei giorni immediatamente successivi ai fatti e fino
alla data del decesso”.
La sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte di Assise di Appello di Milano,
Sezione I, in punto di responsabilità e pena (veniva riformata con riferimento unicamente
alle statuizioni civili).
Tale sentenza in data 7 ottobre 2021 veniva annullata dalla Corte di Cassazione che
accoglieva il motivo di ricorso proposto dalla difesa dell’imputata in ordine al mancato
riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p., ossia l’attenuante della provocazione,
rinviando ad altra Sezione della Corte d’Assise d’Appello per un nuovo giudizio.
La vicenda si concludeva definitivamente il 21 febbraio 2022 con la Sentenza numero
7/2022 della Corte di Assise di Milano, Sezione II Penale, che, previa concessione
dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p., rideterminava la pena da infliggere all’imputata in
anni 5 di reclusione.
3. La Consulenza richiesta dalla difesa
Le sorti della vicenda processuale in oggetto sono state fortemente condizionate dalle
risultanze della consulenza richiesta dalla difesa dell’imputata durante la fase delle indagini
preliminari, tanto che gli esiti della menzionata consulenza – quanto meno in parte – sono
stati utilizzati dai Giudici sia per motivare la qualificazione giuridica corretta da dare ai fatti
sia ai fini del riconoscimento dell’attenuante della provocazione.
La difesa chiedeva alla consulente un parere in merito alle condizioni mentali dell’imputata
al momento dei fatti e, in particolare, se fosse diagnosticabile la “Sindrome della donna percossa”,
quesito a cui veniva data una risposta affermativa.
Nell’elaborato si spiega, dettagliatamente, perché la condotta dell’imputata non costituisce
semplicemente uno stato emotivo di cui all’art. 90 c.p., ma “rientra nella “Sindrome della Donna
Percossa” e si evidenziano i criteri clinici atti ad avvalorare tale tesi.
Sottolinea la consulente che gli abusi psicologici da parte del compagno segnalati dalla
Signora erano continui, così come le mortificazioni e le denigrazioni: frasi quali “tu non sei
nulla per me”, “nessuno ti vuole”, “sei una mantenuta”, “avrei voluto una donna senza figli” erano
all’ordine del giorno ed avevano indotto la signora a giustificare il partner violento.
Inoltre, nella consulenza si faceva presente che la donna descriveva molto bene quello che
in criminologia viene definito “il ciclo della violenza”, ossia l’alternanza di aggressività ed
affettuosità da parte del marito che “… se da una parte la colpiva, ingiuriava e spregiava, dall’altra le
chiedeva perdono, mostrava attaccamento e diceva di volerle bene”.
La consulente conclude il proprio scritto affermando: “… è opinione (n.d.r. di chi scrive)
che tutta la sciagurata storia di vita della signora, concretatasi in un disturbo mentale, abbia guidato la mano
della donna quella sera quando in un acting out patologico e privo di volontà omicida, ha afferrato il coltello
e inferto il colpo”.
Tale assunto è stato speso dalla difesa per sostenere la derubricazione da omicidio
volontario ad omicidio preterintenzionale, nonché uno degli argomenti che ha indotto il
Giudice di primo grado a riqualificare la condotta tenuta dall’imputata e a richiamare le
risultanze della consulenza nella motivazione della sentenza.
Inoltre, come vedremo nel prosieguo, la circostanza che l’imputata fosse affetta dalla
“Sindrome della donna percossa” ha avuto un peso decisivo ai fini dell’accoglimento da parte della
Corte di Cassazione del motivo di ricorso presentato dalla difesa sul mancato riconoscimento
della circostanza attenuante della provocazione e, soprattutto, è servita al Giudice del rinvio
per argomentare la concessione dell’attenuante in parola.
4. La sentenza della Corte di Cassazione e la successiva sentenza del Giudice del
rinvio
La Corte di Cassazione numero 46784 emessa il 7 ottobre 2021 annullava la sentenza della
Corte d’Assise d’Appello Sezione I penale del 29 gennaio 2020, che aveva, sostanzialmente,
confermato la sentenza di primo grado, accogliendo il motivo di gravame proposto dalla
difesa dell’imputata sul mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione e
rinviava ad altra Sezione per un nuovo giudizio.
Nell’annullare la sentenza, la Corte di Cassazione, ai fini del riconoscimento
dell’attenuante della provocazione, ribadiva la correttezza della verifica operata dai Giudici
dell’Appello sulla necessità della sussistenza di una proporzione tra la risposta e la gravità del
fatto ingiusto cagionato, ma evidenziava come i Giudici, nell’effettuare detta valutazione,
avessero omesso di considerare, quale indicatore a favore del riconoscimento dell’attenuante
in parola, il contesto di pregressa violenza in cui si era innescata la reazione dell’imputata.
In particolare, la Corte censurava il fatto che i Giudici dell’Appello non avessero
sviscerato, con la dovuta attenzione, la tematica della così detta provocazione per “accumulo”,
ossia avessero omesso di valutare “… la carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel
tempo, al fine di apprezzare la portata del fattore scatenante che giustifica l’esplosione da parte dell’autore
della condotta” per riconoscere l’attenuante in parola.
Inoltre, la Corte di Cassazione evidenziava che, in considerazione della riqualificazione
della condotta da omicidio volontario ad omicidio preterintenzionale da parte del Giudice di
primo grado, il Giudice dell’Appello, per verificare la sussistenza della proporzione tra
risposta e fatto ingiusto, avrebbe dovuto valutare la reazione dell’imputata con riferimento
all’evento che ella si era prefigurata di cagionare (percosse o lesioni) e non a quello
concretamente realizzatosi (morte).
Sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Corte, il Giudice del rinvio, per argomentare il
riconoscimento della così detta provocazione per “accumulo”, richiamava il contesto di
violenza e soprusi in cui si erano verificati i fatti e si soffermava su quanto emerso dagli atti
di causa, in particolare su come l’imputata avesse descritto puntualmente le numerose
violenze psicologiche ma anche fisiche perpetrate ai suoi danni dal compagno.
Importante però sottolineare come il Giudice del rinvio, sia andato oltre le indicazioni
fornite dalla Corte di Cassazione, utilizzando quale ulteriore parametro a favore del
riconoscimento della così detta provocazione per “accumulo”, la diagnosi di “Sindrome della
donna maltrattata” emersa all’esito della consulenza ritenendo che tale disturbo, di cui
l’imputata risultava pacificamente affetta, costituisse un elemento atto a concorrere a
determinare quella carica di sofferenze necessarie, secondo l’impostazione del Giudice di
legittimità, per determinare lo stato d’animo richiesto ai fini del riconoscimento
dell’attenuante in parola.
Da ultimo, pare interessante evidenziare la scelta della Corte di Cassazione, con
riferimento al rigetto del motivo di gravame in punto di mancato riconoscimento
dell’esimente della legittima difesa, di non prendere posizione su come la questione della
“Sindrome della donna percossa” potesse avere inciso, nella vicenda in oggetto, nella risposta a
stimoli violenti o a minacce di ulteriori violenze.
La Corte, infatti, nel rigettare il motivo proposto dalla difesa, precisava che i Giudici di
merito avevano adeguatamente argomentato le ragioni del mancato riconoscimento
dell’esimente in parola, sulla scorta del fatto che era pacificamente emerso, anche per
ammissione della stessa imputata, che la reazione di quest’ultima alla condotta del compagno
fosse stata determinata dalla rabbia e non da esigenze difensive.
Resta il fatto che, non prendendo una generale posizione sulla questione della “Sindrome
della donna percossa” e sulla sua incidenza in materia di riconoscimento di una possibile causa
di giustificazione della condotta tenuta, la Corte ha di fatto lasciato aperta la questione, non
potendosi escludere, per il futuro, che l’accertamento di tale disturbo possa costituire
elemento valutabile, ai fini del riconoscimento proprio dell’esimente della legittima difesa.